Perché Terre Rosse

G8 di Genova, foto di Zakunin

Terre rosse come le Zone rosse, quelle che circondano i G8, no man’s lands per la cui occupazione molti accettano di farsi massacrare ma soprattutto molti accettano di dimenticare la propria umanità per massacrare, nel nome di effimeri confini pronti a perdere di significato subito dopo. Quale migliore metafora per la cosiddetta “Venezia Giulia”? Inventata nel 1863 per dare peso alla componente italiana all’interno dell’impero asburgico (dopo il suo drastico ridimensionamento con la cessione della Lombardia ai Savoia nel 1861), quindi impugnata dall’irredentismo repubblicano con intenti antimonarchici e poi estesa oltre modo dalla sua immediata degenerazione imperialista nazionalista, infine dimenticata e accorpata alla regione più raccogliticcia d’Italia: il Friuli Venezia Giulia, con già nel nome quel sapore di laboratorialità irrisolta anni ’60-’70, tipo Emerson, Lake & Palmer...

P1080809Terra Rossa è soprattutto la sineddoche con la quale gli esuli istriani spesso alludono alla loro penisola, richiamando alla memoria il terriccio rosso mattone che in verità ne ricopre solo una parte, perlopiù verso ovest, ovvero da dove essi provengono in prevalenza.
Terre rosse” però richiama alla mente anche delle terre intrise di sangue e devastate dal fuoco,  comprese tra le Bocche di Cattaro e le Caravanche. In questo perimetro scorrazzarono l’Esercito Italiano, la Wehrmacht, le bande ustascia, i cetnici, lasciando al loro passaggio scie di sangue ancora indelebili, riemerse mezzo secolo dopo quasi a celebrarne il giubileo.
Rosse, quelle terre, lo divennero anche politicamente dopo la seconda guerra mondiale, con tutte le tare, le sperimentazioni, gli errori, i sogni e gli scheletri nell’armadio di quel peculiare regime socialista non allineato che per quelli rimasti aldiqua della frontiera, nell’Italia dell’atlantismo stay-behind, significò alterità profonda da guardare con sospetto e complesso di superiorità. Eppure le famiglie di molti di noi provenivano proprio da lì ed erano imparentate con quei temuti “tartari”,  ciò dava luogo a scissioni genealogiche oggetto di nevrosi identitarie tragiche e ridicole nel loro provincialismo. S’ciavo e ‘Talijan sono epiteti ingiuriosi che hanno risuonato a lungo e a tutt’oggi echeggiano per le strade e i sobborghi di Trieste come Nigger e Whity nel Bronx, eppure il più delle volte chi li pronuncia insulta inconsapevolmente il 50% del suo stesso sangue.
Il confine oggi si è dissolto ma a dire il vero, per esser stato un pezzo di cortina di ferro, era stato comunque piuttosto blando almeno dal Trattato di Osimo in poi, al punto da spingere i triestini a scherzarci su. Dubito che i berlinesi nel ’78 avrebbero cantato canzonette spensierate su Checkpoint Charlie come quella che il buon Pilade dedicò in quell’anno al confine di Caresana…

La regione dove il confine era ed è più greve è quella temporale nel cervello degli abitanti della frontiera: l’area della memoria e dell’affettività, compromesse per generazioni. La stessa percezione del territorio ne veniva investita, sin dall’infanzia. Se Proust da bambino  poteva modellare la sua Combray e suddividerla sulla base della sua personale sensibilità, da cui la parte di Méséglise e quella di Guermantes, per noi le ripartizioni erano scelte da altri, subordinate ad un piano preordinato calato dall’alto, uguale per tutti i bambini della mia generazione e di quelle precedenti. La parte degli slavi e la parte degli italiani non si potevano determinare a proprio piacimento. Le nostre simpatie e antipatie le decidevano altri senza interpellarci. Anche oggi, in un epoca in cui l’Unione Europea ha provveduto a cancellare dogane e linee di demarcazione, quella cesura permane nei cervelli di molti. Il viaggio attraverso quel solco cerebrale è la sola terapia possibile. Il contrabbando – più che la mediazione – di contenuti, storie,  corrispondenze, eludendo i controlli e le sentinelle (quelle che sorvegliano anche l’intimo) è la sola cura alla segmentazione del territorio e del cervello per ritrovare l’intelligenza intera di questa terra, il suo genius loci – per dirla avanti con Proust: come avviene in quei momenti di fantasticheria quando, immersi nella natura, sospesa l’azione dell’abitudine, accantonate le nostre nozioni astratte sulle cose, crediamo con fede profonda all’originalità, alla vita individuale del luogo in cui ci troviamo.

Questo è il nascondiglio della mia refurtiva, il deposito dei miei contrabbandi. Beni ritrovati, non più beni abbandonati.

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