Sbagliando strada troverai l’Istria. Due ruote senza bussola tra Premantura e l’Ospo

Trovo molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, una cosa inanimata, di fatto perdute per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all’albero, a entrare in possesso dell’oggetto che è la loro prigione. Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte, e ritornano a vivere con noi.

– Marcel Proust, Dalla parte di Swann; Alla Ricerca del tempo perduto
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Sbagliando strada troverai l’Istria
Questa la morale autoconsolatoria che ricavai dal primo viaggio cicloturistico della mia vita. Un’idea balenata per caso, nella noia di un’apatica giornata spesa a cuocersi sotto il Sole in quel di punta Salvore, ormai tre anni or sono. Si studiava come sopravvivere al ferragosto imminente e fu così che proposi a quella che sarebbe poi diventata la mia compagna un’audace pedalata lungo l’Istria, da Sud a Nord.

Avevamo solo tre giorni a disposizione, la scarsa professionalità dei nostri mezzi e l’ancor più scarso allenamento delle nostre gambe ci impedivano di impegnarci in un giro completo di andata e ritorno. Bisognava scegliere tra il calare verso Sud come invasori, avventurieri diretti all’Ultima Thule di Capo Promontore-Kamenjak, o il risalire verso Nord come fuggiaschi, procedendo per terre al progredire vie più familiari. Ci decidemmo per la seconda, complici gli orari dell’aliscafo della Trieste Lines che proprio quell’anno aveva implementato nella sua offerta la destinazione per Pola.

All’ultimo si unirono altri due amici, Richi e Franz, uno psicologo e un fisioterapista – ottimo assortimento per un viaggio che si preannunciava impegnativo per anima e corpo – ma anche un batterista e un bassista, una sezione ritmica che è pure un buon ingrediente in un viaggio scandito dai pedali.  Non li avevo mai visti prima e dopo li vidi ben poco, probabilmente saturati dall’esperienza che mi appresto a narrare.

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L’aliscafo passa davanti al “Molo Audace” – Trieste

Alle 6 e mezza di mattina di sabato 13 agosto montammo in sella, prendemmo la pista ciclabile ricavata dall’ex-ferrovia Trieste-Erpelle e lasciammo correre le ruote giù fino a sbucare in Via Gramsci, sul confine tra i quartieri di San Giacomo e Ponziana, unici in questa città  irredentista per coazione a dedicare vie a socialisti e partigiani. In men che non si dica ci ritrovammo infatti in una ben più patriottica via Caprin, non senza essere transitati per la programmatica via dell’Istria. A Trieste si è invitati ad affacciarsi sulla penisola istriana fin dai nomi delle vie, nei rioni più disparati – ovunque l’Opera per l’Assistenza ai profughi giuliani e dalmati ed ai rimpatriati abbia edificato palazzine – ci si ritrova sommersi da strade che commemorano Pirano, Capodistria, Fianona, Pola, Isola, Fiume, Rovigno…

Per il nostro percorso avevo scelto il litorale istriano occidentale in quanto più pianeggiante di quello orientale – tutto falesie selvagge, rampe e burroni. L’idea era quella di costeggiare il mare per tuffarvicisi ogni qualvolta la quantità di sudore grondante sulle tempie l’avrebbe richiesto. Ma forse una molla più interna e insondabile mi spingeva a tracciare un filo rosso su quei lidi come anche la direzione. Cittanova stava sul nostro percorso così come sulla carta d’identità di mio padre. Anche lui risalì da sud a Nord, non in sella, ma su un carro trainato dai buoi. Così almeno vuole la leggenda familiare.

 1° tappa: Traghetto Trieste-Pola, Premantura, Valbandòn

Route 1,601,755 – powered by www.bikemap.net

Qui sopra l’itinerario che avremmo seguito il primo giorno, una volta giunti a Pola via Aliscafo. Bikemap in verità lo scoprii solo una volta ritornato a casa, con immenso rammarico…

Dopo aver pedalato per le strade svuotate di Trieste giungemmo finalmente in Porto Vecchio. All’imbarco al Molo IV trovammo dei poliziotti che ci perquisirono con il metal detector. Le-disposizioni-di-sicurezza-dopo-gli-attentati-dell’11-settembre-impongono-controlli-su-ogni-mezzo-di-trasporto-internazionale, ci dissero come fosse un’unica parola logorata dall’uso. Mancava poco meno di un mese al decennale di quella fatidica data e continuavo a non capire, tanto più che bin Laden era stato appena dichiarato morto e ammarato. Quasi a rispondere ai miei ulteriori dubbi interiori il poliziotto mi brandì sotto il naso una piccola chiave inglese che portavo con me per eventuali guasti. “Vede? Questa è un’arma. Non si preoccupi, le verrà restituita allo sbarco“. Non potei fare a meno di immaginarmi con un passamontagna che minaccio il capitano con quell’ordegno per lanciare l’aliscafo a tutta forza contro l’Arena di Pola, inneggiando a una mia personale jihad istriana. Verosimile.

Dovevamo partire alle 8,  ma gli ormeggi non furono sciolti prima delle 8.45. Arrivammo presto a Pirano, nel giro di mezz’ora, ma di nuovo rimanemmo impelagati in porto, accumulando altro ritardo. Ogni minuto perso era un minuto rubato al mare smeraldino di Premantura e quindi un volt in più di elettricità nei nostri nervi, già accesi dalla perquisizione poliziesca. Per quale ragione correre sopra il mare su delle ali, al prezzo di chissà quale impatto ambientale, se poi rimani ad aspettare in porto? Se proprio dobbiamo avvelenare i pesci facciamolo in fretta! Alle 10.30 avremmo dovuto essere in vista di Pola ma invece stavamo appena accostando alla banchina di Rovigno.

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L’attracco a Pola…

Attraccammo al Riječki gat (“Molo Fiume”) di Pola poco prima di mezzogiorno e ovviamente scendemmo per ultimi, proprio di fronte all’Arena. Un marinaio mi riconsegnò le “armi improprie” come promesso, mi guardò con sospetto: un ghigno deve aver increspato la mia faccia mentre ammiravo l’arena con la chiave inglese in mano.  Al reso mancava un attrezzo multiuso che avevo comprato apposta per il viaggio, sicché i nervi già ribollenti si sciolsero in una teoria di improperi e maledizioni fino all’ottava generazione rivolte sia all’equipaggio che ad un altro gruppetto di cicloturisti sbarcati prima di noi, condannati sommariamente di ladrocinio e alto tradimento, punibili con il patibolo. Poco dopo rinvenni l’attrezzo in una tasca dello zaino che avevo tenuto a bordo con me tutto il tempo. Cazzo! Allora avrei potuto veramente dirottare l’aliscafo! Forse così saremmo riusciti a stare nei tempi…

Inforcammo le bici e ci perdemmo subito sulle rive di Pola. Ai Giardini o Piazza Fratellanza e Uguaglianza (Trg Brastva Jedinstva) ritrovammo la bussola. Arrivammo a  Premantura in perfetto ritardo di due ore. Ci buttammo a mare nella prima baia disponibile una volta entrati nel parco di Kamenjak; giusto il tempo di un paio di nuotatine, di un pisolino e di una macedonia presa in una specie di chiringuito (buona sola a convincerci che il melone nella macedonia non ci va) e dovevamo già rimetterci in sella. Prima però io e la mia compagna,  o meglio colei che lo sarebbe diventata, tentammo un’esplorazione per cercare di toccare l’estrema punta Sud di quella goccia rovesciata che è l’Istria. Ma l’orologio non era d’accordo: ci aspettavano diversi chilometri da macinare a nord di Pola per arrivare a un check-in entro poco più di un’ora, dovevamo fermare due camere prenotate fortunosamente il giorno prima presso un’agenzia turistica online tedesca (!). Zurück! Dietrofront! Peccato, andare verso Sud ci piaceva ma fuggire a Nord era il nostro destino.

Per ritornare a Pola optai per un percorso alternativo, intrigato dall’idea di percorrere una stretta passerella in pietra che delimitava l’antica peschiera di Pomèr. Suggestivo. Meno lo fu – una volta penetrati nell’entroterra – ritrovarsi in mezzo a una discarica a cielo aperto dietro l’altura Castiun, piena di plastica e gabbiani. I compagni di viaggio lanciarono urla di giubilo sfrecciando fra le immondizie: plaudivano alle mie doti di tour operator degno di Mad Max o Fantozzi.

la passerella di Pomèr Pomer e la sua passerella La discarica del monte Castiùn
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La discarica del monte Castiùn

Attraversammo in velocità il centro di Pola uscendo verso Dignano e poi svoltando a sinistra verso Fasana.  Era una corsa contro il tempo: rischiavamo di perdere il tetto per la notte a Valbandon, solo per fare quella cazzo di passerella a Pomer! Franz, il fisioterapista/bassista, aveva recuperato una bici all’ultimo con problemi di cambio che ne rallentavano la marcia, sicché staccai gli altri e arrivai giusto cinque minuti prima del termine previsto al chioschetto dell’agenzia. L’impiegato mi rassicurò che l’ufficio sarebbe rimasto aperto ancora un’ora… In compenso l’alloggio che avevamo prenotato non c’era più, per un problema di booking era stato assegnato ad altri clienti.

C’era qualcosa di maledetto in questo viaggio, i segnali ormai si sprecavano. Ma ad ogni pezzo della mia programmazione che crollava un altro imprevisto risistemava le cose: si era liberato un appartamento molto più grande di quello prenotato, addirittura a due piani, e ovviamente dato il disguido la tariffa per noi sarebbe rimasta la stessa…

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Valbandon

2° tappa: Fasana – Parenzo

Route 1,601,815 – powered by www.bikemap.net

Sarebbe buona norma, quando si viaggia in bici in estate, alzarsi all’alba, pedalare fino a mezza mattinata, quindi trovare riparo nelle ore più calde, farsi un bel bagno, riposare e riprendere il viaggio nel tardo pomeriggio quando il Sole è meno forte per evitare il collasso e quindi andare a letto presto. Noi ovviamente disattendemmo qualsiasi prescrizione di buon senso, decidemmo di farci un bel tòc’ (bagno in mare) al calare delle tenebre, devastando dei giochi gonfiabili galleggianti come la peggio teppaglia intossicata… fino a che i fischi delle guardie non ci indussero a fuggire alla spicciolata, continuando poi la serata a Fasana, poco distante, a suon di cocktail imbevibili in un localetto solitario sulla riva, unici esagitati in una cittadina spettrale anche nel WE di Ferragosto.

Inevitabilmente la partenza del giorno dopo fu tutto fuorché antelucana. Alle 10 eravamo appena a Peroj ma la mattinata era ancora fresca e l’ambiente niente male: la strada correva solitaria nella macchia mediterranea con gli odori di erbe aromatiche,  resina e salsedine che si mischiavano nelle narici. Ci fermammo brevemente davanti alla chiesa ortodossa di San Spiridione (un unicum in Istria) per controllare la mappa, ancora ne facevamo affidamento. quindi ripartimmo allegri in direzione Barbariga.

La mappa alla quale mi affidavo era una Kompass comprata all’uopo qualche giorno prima ma vecchia di sette anni, dettaglio sfuggittomi all’atto dell’acquisto. Dal 2004 al 2011 l’impianto stradale istriano aveva subito sommovimenti tellurici che ne avevano sconvolto la fisionomia: autostrade a una corsia (!), viadotti, strade scomparse nel nulla, rotonde spuntate come funghi. Già ne avevo avuto saggio con la visitina coatta alla discarica di Castiun, causata da una rotonda non segnalata. Ora, ad esempio, confidavamo in una carrareccia che secondo la mappa avrebbe dovuto condurci da Barbariga ai campeggi di Bale – molto noti ai triestini – costeggiando il mare limpido dove progettavamo di fare il primo bagno della giornata. Purtroppo le zone militari, per la stessa logica paranoico-securitaria che avevavno spinto i poliziotti a requisirmi una mini-chiave inglese, non vengono segnalate sulle cartine di pubblico dominio…  Secondo me i cartografi, o meglio i controllori dei cartografi, si drogano o leggono Arrigo Petacco, che è ben peggio. Secondo questo sedicente storico, ad esempio, l’Operazione Weserübung – L’invasione nazista della Norvegia – fu preparata dal generale von Falkenhorst appoggiandosi a guide e mappe turistiche… sarà, a me sta storia sembra uscita da Sturmtruppen.

Insomma per colpa della Kompass, alleata degli slavocomunisti, non potei quindi far scattare l’operazione Radziege: l’invasione bizikrieg dell’Istria. Un altro smacco dopo il fallito dirottamento dell’aliscafo. Vediamo come fu sventato il nostro assalto.

Barbariga
Barbariga

Quando entrammo a Barbariga la frescura che fino a lì ci aveva accompagnato lasciò il posto alla canicola ferragostana che accentuò psicologicamente lo squallore di quella località prefabbricata, con tanto di nome venezianeggiante per accalappiare turistame italiota.

All’inizio sbagliai semplicemente strada, ma quando è già la mappa ad essere sbagliata cannare può significare andare sul giusto ma non potevo saperlo…

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In verde la strada percorsa,comprensiva di tentativi fallimentari. In violetto il percorso che volevamo seguire, in giallo l’area militare invalicabile, in rosso la via d’uscita che non percorremmo…

Ritentammo costeggiando il mare ma giunti in una piccola baia ricolma di alghe secche , val San Benedetto, ci ritrovammo la strada sbarrata da una rete metallica con tanto di filo spinato in cima. L’unico modo per proseguire, secondo quanto appreso da alcuni autoctoni, era tornare indietro e tentare la strada per la località Mandriol. Brutto colpo: ci allontanavamo ancor di più dal mare e la calura aumentava inesorabile.

Arrivati al bivio per Mandriol avremmo ancora potuto tagliare verso i campeggi ma la fiducia nella mia mappa era ormai definitivamente archiviata. La disperazione già dilagava nella truppa. Il più devastato era lo psicologo, Richi: la gomma posteriore faceva una pancia preoccupante. A momenti glie la la sgonfiavo del tutto, poco abituato alle valvole francesi. Riuscii a ripomparla ma lo stesso non riuscii a fare per il morale del gruppo. Decidemmo di abbandonare ogni speranza di balneazione e puntammo verso la rotabile Trieste-Pola all’interno, la vecchia via Flavia, trafficatissima alla vigilia di Ferragosto. Prima però percorremmo un’estenuante strada bianca che si snodava polverosa in una boscaglia senza ombra. Quando approdammo sullo stradone, con le macchine che ci sfrecciavano di fianco, gioimmo. Questo dà dell’idea dello stato di prostrazione in cui versavamo.

Subito prima di entrare nel paese di Valle o Bale si presentò l’incrocio per Rovigno. Richi e Franz, umili, decisero di puntare verso il traghetto di ritorno. Perdevamo la nostra sezione ritmica, la musica si sarebbe fatta più intimista. Io, spavaldo, puntavo a ritornare a casa sui pedali, così mi preparavo ad una lunga cavalcata solitaria. Con grande sorpresa lei decise di seguirmi. Una delle più belle sorprese della mia vita…

Dopo aver salutato Richi e Franz, in una profusione di pacche sulle spalle e attestazioni di stima ma con visibile sollievo nei loro occhi, io e lei ci fermammo a pranzare nella konoba sulla strada. Mangiammo caramai fritti e insalata di polipo, bevemmo malvasia istriana, scherzammo. Cercavamo di allontanare il pensiero di ciò che ci attendeva: il Canale di Leme.

Il Limski kanal, per chi non lo conoscesse, è un fiordo profondo che incide la costa occidentale istriana altrimenti omogenea, come un colpo di accetta che fa affiorare roccia carsica strapiombante su un litorale altrimenti pianeggiante. Per i climbers provetti, in primavera, è un paradiso, per i ciclisti in estate, nel primo pomeriggio,  è una salita da incubo.

Non ho un ricordo vivido della sofferenza provata, probabilmente è un meccanismo di difesa mentale come l’oblio del dolore nelle puerpere. Ricordo solo che quando arrivammo in cima alla salita ci fermammo al chioschetto vicino al Belvedere e prendemmo entrambi due ghiaccioli Sladoledo tipo Calippo, dal che desumo che tanto bene non stavamo. L’ultima volta che mi ero preso un Calippo avevo un’età in cui non potevo ancora cogliere l’oscenità del gesto cui quel ghiacciolo obbliga per consumarlo, per dire…

Non ci fu molto tempo per tale suggestivo ristoro anni ’80: i nostri pensieri erano già occupati dall’imperativo di trovare una camera. Per quella notte, infatti, non eravamo riusciti a pescare niente di libero in rete e ora confidavamo di trovare qualche rustico fuori dal giro del booking online dove pernottare. Iniziammo a chiedere già presso l’abitato di Flengi, patria dei maiali allo spiedo perennemente in mostra a qualunque ora del giorno, con i caratteristici cuochi che ti salutano dalla strada per invogliarti ad addentare un cosciotto. Chiedemmo a ogni passante, persino ai cuochi. Niente da fare: cosciotti a biondo dio* ma stanze tutte piene. (*che dio la manda)

Anzichè puntare su Orsera, sulla costa, decidemmo di continuare a pedalare verso l’interno, convinti che sarebbe stato più facile trovarvi un letto libero. Vana speranza: lì nel parentino, ancora distanti dall’ex- Zona B, l’Istria interna significa deserto. Se la costa è tutto un susseguirsi di campeggi, albergi e apartmani, la campagna è solo case semidiroccate o ristrutturate ma sprangate, con qualche gallina semiselvatica che passeggia per la strada, cani spelacchiati in libertà che per fortuna ti danno poco bado e neanche un’anima viva, del genere bipede implume, a cui chiedere una stanza. Questo almeno lo scenario che ci si presentò nel paesetto di Jasenovac vicino Fuškulin.

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Foscolino o Fuškulin

Man mano che ci riavvicinavamo alla costa tornavano a spuntare i caratteristici cartellini azzurri indicanti Sobe (stanze) e Apartmani.

Piccola parentesi su questa parola, Apartmani, un buffo pidgin non appartenente né al croato né all’italiano, molto istruttivo però sulla natura del rapporti tra questi due popoli in questa terra. Aldilà dell’essere indubbiamente un frutto del mercato immobiliare turistico è par mio molto molto istriano, un po’ come i fuži col tartufo. Per gli irredenti dell’histria nobilissima forse una prova di violentissima slavizzazzione, per me solo folklore di una terra intimamente meticcia.

Con cresente inquietudine rilevammo che era tutto prenotato. A Mugeba (un tempo nota come Monghebbo), ormai in prossimità di Parenzo e della disperazione, trovammo per puro caso una camera libera grazie a una disdetta. Sistemazione lussuosa, pazienza, l’alternativa sarebbe stata dormire sulla spiaggia, cosa che poi in Croazia non è che sia molto tollerata. Prima di cenare, quando il Sole già stava per tuffarsi nel mare, ci prendemmo lo sfizio di un bagno.  Nei miei progetti quella giornata avremmo dovuto trascorrerla tutta fuori e dentro il mare e invece da Barbariga in poi non ne avevamo visto che uno spicchio nel Cul di Leme! Ora a nostra disposizione c’era la baia più affollata, Plava Laguna, del campeggio più affollato della località più affollata: Parenzo, peraltro ricolma di triestini.  Ecco, un Calippo alla Cola croato e il bagno a Plava Laguna alla vigilia di Ferragosto: due cose che fino al giorno prima avrei tranquillamente giurato che in vita mia mai e poi mai avrei fatto. Ma il viaggio, quello vero che ti dà almeno un assaggio di precarietà, scompagina tutte le carte in tavola.

3° tappa: Parenzo-Trieste

Lasciammo la nostra lussuosa stanza a Mugeba il giorno dopo, Villa Katja si chiamava – come la madre di lei – ché questa storia è piena di suggestioni familiari.  Montammo in sella senza aver fatto colazione, convinti di incocciare in un bar sulla strada, ma nelle stradine dei campeggi parentini non trovammo un posto che fosse uno che servisse un caffè. Solo sulla riva Tito, proprio dinanzi agli yacht dei ricconi, in un bistrot chic, lo trovammo finalmente… Eravamo già sudati e impolverati il giusto, in quelle condizioni consummammo caffè, succo di frutta e brioche in un locale della Parenzo bene, il giorno di ferragosto…

P1080805All’inizio quella terza giornata di bici ci sembrò la migliore, riuscimmo persino a tener fede all’originario principio di pedalare costeggiando il mare. Giungemmo a Červar, passando di fianco a delle rovine romane prospicienti la riva, poi però fummo costretti a puntare verso l’interno, tagliando per Valbriga per giungere sul rettilineo di Tar (Torre), quindi sul ponte-diga dell’Antenal e, attraversata la foce del fiume Quieto, arrivammo finalmente a  Cittanova. Non ci furono particolari sentimentalismi per quella che sarebbe la patria di mio padre, eravamo di fretta e scansammo  il centro, volevamo arrivare a Umago, molto più a nord, entro ora di pranzo. Ma a passare sulle radici non prestando attenzione si rischia di inciamparci…

Fu infatti allora che comparve la prima freccia. Eravamo nei pressi di Mareda, poco prima di arrivare a Daila. Da un po’ ci eravamo messi a seguire fiduciosi dei segnavia con il simbolo della bici, non indicavano alcuna destinazione, soltanto il numero 8. Per un po’ ci aveva fatto costeggiare il mare e puntava verso Nord, non poteva che essere il nostro numero fortunato! Poi all’improvviso scartò verso l’interno, tuffandosi in una rada boscaglia di acacie e cespugli spinosi – si tratterà di una scorciatoia – pensammo. Eravamo ben felici di abbandonare le strade asfaltate e soprattutto i tubi di scarico, ma in breve tempo li avremmo rimpianti. Iniziò una serie di curve e controcurve che ci fecero perdere il senso di marcia, sbucammo su una cavedagna di terra rossa, esattamente quella dell’header di questo blog. Poi nuovamente una curva, nuovamente un sentiero, nuovamente altre cavedagne, altri campi arati, vigne, granturco. Ogni volta la nostra andatura veniva interrotta da un’improvvisa svolta, sempre in direzione contraria a quella che ci attendevamo. Il passaggio dall’ottimismo al nervosismo fu lento e discontinuo, intervallato da ciclici “ci siamo!” subito disillusi. Il primo crollo,  simile a quello del giorno prima a Mandriol ma decuplicato, si verificò quando finimmo in… Romania… a parlare francese… Ebbene sì: raggiungemmo un abitato sperduto vicino Businìa che i cartelli chiamavano “Romanija” e quando ci rivolgemmo a due anziani presso una vecchia casa rustica questi ci risposero in francese, che per fortuna lei masticava, grazie ad un Erasmus nel Belgio vallone di qualche anno prima…  erano due villeggianti e non sapevano bene nemmeno loro dove diavolo ci trovassimo, il non plus ultra dello smarrimento: che cazzo ci facevano due francesi in vacanza in una bicocca in mezzo al contado istriano?

Mia nonna paterna è veneta, ma nel ’39 arrivò con la famiglia a Daila dove lavorarono come coloni per i frati benedettini del locale convento assieme ad altre 48 famiglie, proprio in quel luogo avevamo perso la retta via. La famiglia di mio nonno invece lavorava dei campi a mezzadria vicino a Businìa. Sarebbe a dire che alcuni di quei campi che avevamo maledetto sulle interminabili cavedagne del sentiero Istrabike n° 8 erano proprio quelli che i miei avi avevano lavorato fino a 60 anni prima. Come si fa a non vederci qualcosa di nevrotico in ciò? Un sintomo di quell’HISTeRIA descritta nell’opera teatrale di Gianfranco Sodomaco, di cui ho messo la locandina in apertura del post. Un corto circuito.

I ricordi poi sono confusi. In qualche modo arrivammo a Umago, stremati, nel pomeriggio. Appena allora pasteggiammo. Da programma avremmo dovuto continuare sul lungomare fino a  Salvore, proprio lì dove avevamo concepito tutto, ma puntammo rabbiosamente verso il confine sloveno-croato per la strada di Madonna del Carso, ne avevamo abbastanza. Ricordo che passammo per una località chiamata Ungerija/Ungheria, ebbi ancora lo spirito di scherzarci su tra me e me, dopo la Romania ce l’eravamo presa larga…

Arrivammo al confine poco prima delle quattro, il problema è che sbagliammo confine: dovevamo passare per quello di Sicciòle e invece finimmo in quello di Dragogna. A ingannarmi, anche lì, una rotonda non segnalata in mappa, che peraltro conoscevo benissimo automobilisticamente… ma le cartine hanno il potere di farti estraniare anche dai luoghi familiari. Passato il confine ci imbattemmo nell’indicazione per Sicciòle – 7 km. Dobbiamo andare di là no? Mi fece lei. Era l’evidenza ma io la negai, convinto di essere sull’altro valico. Testardamente ordinai di avanzare dritti. Pedalammo per diversi chilometri dapprima in falsopiano, poi sempre più in salita con le auto e i camper dei villeggianti già di ritorno dal ponte ferragostano che ci sfrecciavano a lato intossicandoci naso e orecchie. Solo al bivio per Pàdena mi arresi all’evidenza, e più tardi lo fai più grossa sarà l’umiliazione e la prostrazione dopo… Non sapevo come dirglielo alla mia compagna di viaggio che a più riprese mi aveva chiesto sospettosa, tossendo tra gli scarichi: “ma sei sicuro? Di qua?” Stoicamente accettò la mia idiozia e ritornammo indietro fino al valico di Dragogna. Quel suo silenzio demolì la mia autostima ancora di più, si fosse almeno incazzata avrei tentato di giustificarmi. Percorremo quindi l’interminabile vialone che unisce i due valichi, costeggiammo il piccolo aeroporto per aerei da turismo e al primo accenno di salita, presso il paese di Sezza, crollai. Buttai la bici per terra e dissi basta. Non ne potevo più, di quella carta, di quella bici, dell’Istria, di me stesso più che altro.  Lei stava andando avanti, si fermò, tornò indietro. Era in forma, pedalava spigliata, io invece arrancavo. Avevo ceduto, in testa più che altro. Si accostò e mi disse dolcemente: “prendiamo il traghetto a Pirano?” Eravamo in tempo. Ma lei sapeva che quello era il modo più efficace per convincermi a  non desistere: puntare sulla mia testardaggine, proprio quella che poco prima ci aveva spinto in direzione contraria. “No” dissi mestamente e ritornai in sella barcollando. Vicino a noi vedevamo passare delle biciclette lungo una stradina di fianco alle saline, in mezzo ai canneti. Non ci saremmo mai più fidati di seguire alcun percorso ciclabile, anche se avevamo cambiato paese. Neanche dirlo: quella volta sarebbe stata la nostra salvezza, quella era la ex-ferrovia Parenzana, da poco sistemata a percorso ciclabile. In poco più di un’ora ci avrebbe riportato a casa evitandoci dislivelli eccessivi e percorsi troppo tortuosi… e invece no! Noi ci sfiancammo sulla salita del Monte Luzzano che la Parenzana ci avrebbe evitato con una bella galleria illuminata. Pazienza, avremmo potuto riprendere l’ex-ferrovia una volta ridiscesi a Strugnano, anche lì la galleria del Saletto ci avrebbe portato direttamente a Isola ma no, noi ci inerpicammo sulla strada del Ronco, una mulattiera che porta in cima al promontorio a sud di Isola. Con quelle due salite fu in lei che cedette qualcosa, scendendo sulla strada del Belvedere cadde pure, per fortuna senza conseguenze. Ora mi sentivo un verme.

Da Isola a Capodistria, per forza di cose, finimmo sul tracciato di quella maledetta Parenzana, ma non ci godemmo per niente il lungomare. A Koper, in mezzo alla piana della bonifica, lei collassò proprio come io ero crollato a Sezza. Usai, quasi inavvertitamente, lo stesso stratagemma che lei aveva usato con me, le proposi di aspettarmi lì, sarei tornato con la macchina per caricarla con la bici, ormai mancava poco e col senso di colpa come carburante avrei aumentato il ritmo e forse nel giro di un’ora avrei potuto essere di ritorno. “No!“, disse lei e così proseguimmo avanti per Ancarano e, dopo la salitella di Punta Grossa, arrivammo al confine italiano del Lazzaretto, poi Punta Sottile, Porto San Rocco, Muggia. Una strada interminabile quando si è in bici e si è spossati! Alle 20.30 varcammo il ponte dell’Ospo. Per alcuni è il torrente Rosandra il vero confine settentrionale dell’Istria, ma l’Ospo si presta meglio a spartiacque simbolico.

Sbagliando strada ho trovato l’Istria. Per ovvi retaggi familiari l’avevo percorsa in lungo e in largo per tutta la mia giovinezza ma solo allora a 30 anni, uscito da catastrofi e fallimenti personali, la assaporai davvero. Non un ritorno alle radici, no, piuttosto un mescolarsi alla sua polvere, alle sue strade e alla sua solitudine maniaco-depressa di turismo intensivo ed abbandono. Non ho avuto modo di crescere con mio padre e dalla sua scomparsa anche i rapporti con la sua famiglia si sono diradati. Crescendo con mia madre, per ovvie ragioni, ho intrattenuto legami più significativi con la sua famiglia, di origini slovene, tralasciando i miei quarti di istrianità. Come una resa dei conti, con quella breve ma allucinata avventura, ci ho sbattuto contro. Uno spartiacque: qualcosa è finito e qualcos’altro è iniziato, come in ogni momento della vita – certo. La memoria però sceglie solo alcuni momenti e io faccio iniziare lì questo viaggio, il mio traffico illecito personale che sta alla base di questo racconto/blog, nel momento esatto in cui ho incominciato a non sentirmi più solo.