Učka / Monte Maggiore, le montagne sono sempre meticce

Tratto da un post collettivo originariamente pubblicato su AlpinismoMolotov

Učka/Monte Maggiore dal Gorski Kotar sopra Fiume (Rijeka)

Due gran montagne dividono l’Italia dai barbari, l’una dimandata monte Caldera, l’altra monte Maggiore nominata.

Così diceva Leandro Alberti (1479-1552) o almeno così sostenne Mazzini nel 1866 rivendicando all’Italia l’Istria, la “Carsia” e le Alpi Giulie [1]. Curioso è che nella regione attorno al monte Maggiore-Učka – la fantasiosa Venezia Giulia – nel 1927 abitassero diverse persone di cognome “Alberti”, peccato che fino a qualche anno prima però si chiamassero Abracht, Albrecht, Avber, Albert [2]. Il Maggiore fu lo spartiacque rivendicato anche da Gaetano Salvemini nel 1916 [3], uno non proprio in odore di fascismo. Sembrava che il “patriottismo” italiano, anche quello più a sinistra, non riuscisse a prescindere dal dominio della vetta più alta dell’Istria. Eppure questo rilievo, punto d’incontro della catena dei Vena e dei Caldiera, non fu storicamente territorio d’italiani, piuttosto pascolo per i pastori cicci, popolo di lontana ascendenza valacca (o meglio, vlach, che è diverso), più o meno slavizzato (per assimilazione “naturale” lungo i secoli), deriso dagli abitanti della costa per la sua arretratezza o forse solo per la deliberata assenza di dimestichezza con la civiltà marinara: “cicio no xè per barca” è il detto che li stigmatizzava, ripetuto ancora oggi ogni qualvolta un individuo dimostri scarsa propensione per una qualsivoglia arte.

In azzurro il Monte Maggiore nei confini successivi al Trattato di Roma del 1924
Il Monte Maggiore nel 1924

Salvemini era convinto che un confine posto su questo spartiacque avrebbe contribuito alla fratellanza delle genti italiche e slave, un errore madornale di geografia che sarebbe risultato fatale per i popoli di questa penisola, qualunque lingua parlassero. L’Amministrazione militare italiana dopo il 1919 e quella fascista infatti infersero una ferita purulenta a queste terre, legando il tricolore italiano a sopraffazione, violenza e morte, specie quando l’Italia invase la Jugoslavia nel ’41, dando luogo a deportazioni di interi villaggi croati e sloveni, anche istriani – tecnicamente cittadini italiani – in campi di concentramento come Rab/Arbe, Molat/Melada, Gonars e tanti altri. Campi di morte assurdi: a Molat si fucilavano i prigionieri come rappresaglia per i pali di telegrafo abbattuti dai partigiani [4].

La Val d’Arsa dalla vetta dell’Učka/Monte Maggiore

C’era un tempo una cospicua comunità di italiani in zona, poco più a Sud, nella Val d’Arsa che si apre proprio ai piedi dell’Učka. Si trattava perlopiù di immigrati ancora sotto l’Austria, dal Trentino, dal Bellunese, persino dalla Sicilia, impiegati nelle locali miniere di carbone e nelle cave di bauxite. Costoro nel 1921 insorsero contro i padroni edificando la Repubblica Sovietica di Albona, nata in reazione allo squadrismo fascista (6), a testimonianza che alla presenza di una determinata comunità nazionale non corrisponde un’automatica istanza nazionalistica.

Vicino ad Albona si trova la località di Vines dove è situtata la “foiba dei colombi”, probabilmente la più sanguinaria dell’insurrezione popolare del settembre 1943, in essa furono recuperate 84 salme di cui 12 appartenenti a soldati tedeschi. La propaganda di destra – e purtroppo anche di Stato – la vorrebbe elevare a simbolo della ferocia “slavocomunista” ai danni degli italiani, invariabilmente innocenti. Eppure nei tribunali del popolo che decisero quegli infoibamenti figuravano molti italiani, sicuramente molti minatori, e tra gli infoibati molti servi di quel potere che nel ’21  aveva condotto una violenta repressione dei moti operai nonché membri e sottoposti dell’autorità mineraria. Ricordiamo che nel 1940 si verificò un disastro minerario che causò la morte di 185 minatori più 147 feriti, incidente messo a tacere dall’apparato fascista e dalla proprietà ma che i locali non dimenticarono, e la rabbia in tre anni fatica a raffreddarsi… [5]

Il 1° marzo 2015 la banda disparata di Alpinismo Molotov  ha effettuato una salita simbolica alla vetta dell’Istria, in reazione ad una sortita di un gruppo escursionistico neofascista italiano andato lì a sventolare tricolori e rivendicare italianità a destra e manca, senza alcuna cognizione. La spedizione “molotov” ha inteso con quel gesto  “disinfettare” la vetta dalle tossine nazionaliste ma anche  emendare lo stesso alpinismo in quelle terre. Giova infatti ricordare che l’alpinismo triestino, o meglio l’associazionismo alpinistico, fu strumentale all’opera di italianizzazione ignorante della toponomastica sulle Alpi Giulie e Dinariche, sia coniando diversi nomi inventati di sana pianta o recuperando oscure denominazioni della Serenissima del tutto desuete, sia partecipando ufficialmente alle commissione che il Regno d’Italia costitutì nel ’21 per ridenonimare definitivamente ogni toponimo della Venezia Giulia (Il Regio Decreto 20 gennaio 1921 determinava dettagliatamente la Commissione assegnando un seggio ad un delegato del Club Alpino Italiano) [7]. Tale bonifica etnica è stata una sciagura non solo, ovviamente, per le popolazioni di lingua slovena e croata nel ventennio che hanno visto cancellare la propria identità ma pure, per reazione, alle comunità italiane che a tutt’oggi risiedono in loco e che ora vedono i propri nomi storici confusi con le italianizzazioni ignoranti dal nazionalismo croato che si serve di un falso antifascismo per sopraffare le minoranze. Il Monte Maggiore o Učka, come tutti i monti, è un luogo meticcio, in quanto visibile da tutta l’Istria e quindi chiamato da ogni comunità nazionale presente sul territoriofoto ucka (21) con il nome che gli é più familiare.

Sulla torretta sommitale salta fuori da uno zaino una bandiera NO TAV. Peraltro anche questa montagna sconta un orribile traforo, l’Učka Tunnel, ormai storico, che ne squarcia un fianco proprio in corrispondenza dello spettacolare canyon Vela Draga, luogo di falesie, torrioni e aghi di roccia arditissimi scoperti e scalati per la prima volta da Emilio Comici ed i suoi sodali.

L’ingresso del Tunnel Učka nella Vela Draga

A testimonianza poi del fatto che questa cima non è lasciata in pace proprio da nessuno, alle nostre spalle si stagliano giganteschi ripetitori radio-TV. Da queste potenti antenne veniva e viene tuttora sparata Radio Capodistria fin nell’Emilia, un tempo emittente socialista jugoslava amata in quelle terre “rosse” padane. Proprio da lì provenivano le improbabili richieste di dediche di “Bandiera Rossa” o dell’Internazionale per il proprio nipotino di due anni da parte di nonne militanti, mentre i locali ascoltatori istriani si domandavano come cacchio facessero ad amare tanto ‘ste fanfare gli italiani, loro che le sentivano ogni giorno e che magari anelavano ardentemente di sentir passare in radio Bitanga i Princeza dei Bijelo Dugme

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(1) Giuseppe Mazzini, Scritti politici editi ed inediti, Imola, Galeati, 1940, vol. 86, pp. 15-22

(2) Paolo Parovel, L’identità cancellata, Trieste, Eugenio Parovel Editore, 1985

(3) Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 81-82

(4) Giuseppe Aragno, Dalmazia italiana: insegnare o imparare?, 04-04-2007 in Il tempo e la Storia.

(5) Sergio Fumich, Dopo l’8 settembre in Istria. Foibe e rappresaglia nazifascista, Brembio, 2006, p. 36. Alberto Buvoli, Il fascismo nella Venezia Giulia e la persecuzione antislava, Patria indipedente, 2007

(6) Giacomo Scotti, Luciano Giuricin, La Repubblica di Albona e il movimento dell’occupazione delle fabbriche in Italia in Quaderni I del Centro di ricerche storiche, Rovigno 1971, pp. 21-188

(7) Paolo Parovel, op. cit. pp. 22-23